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ELEZIONI IN MAROCCO, IL FASCINO DISCRETO DELL’ISLAM MODERATO

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S’è adagiato con discrezione sulle urne marocchine. Ha calamitato un voto di maggioranza pur relativa con cui ha messo in fila tutti: il partito del Re (Istiqlal), l’Unione nazionale (Rni), socialisti (Usfp), comunisti (Pps), movimento berbero e una pletora di formazioni più o meno blasonate ma senza appeal. L’Islam moderato del Partito di Giustizia e Sviluppo (Pjd) ha bissato l’exploit della tunisina Ennadha, vincendo la seconda consultazione della primavera araba. Certo, nel più maghrebino dei Paesi dell’Africa mediterranea, su ventidue milioni di elettori ha votato una minoranza, però dopo anni di stagnazione di potere sembrano aprirsi spazi pur modesti di partecipazione. La monarchia sapeva di rischiare quel consenso ricevuto a lungo in virtù d’una vecchia ricetta sempre rinnovata. Da una parte l’autoritarismo dal braccio più o meno violento, pratica soprattutto degli anni Sessanta e Settanta quando il patriarca Hassan II faceva sparare sulla folla e sparire gli oppositori. Dall’altra gli incentivi alla corruzione e l’untuoso abbraccio consumistico rivolto a quei cittadini che hanno qualcosa da spendere. Un comportamento oggi ben più vivo di ieri.

Il voto è l’amaro calice che Mohammed VI ha sorseggiato consapevolmente. Dopo il 20 febbraio, data delle prime manifestazioni di piazza a Rabat, in verità né rabbiose né oceaniche come le tunisine ed egiziane, aveva scelto la via della collaborazione lavorando a una trasformazione della Costituzione che conferisce alle consultazioni popolari e al Parlamento un rinnovato ruolo nella politica nazionale. Insomma il re morbido s’è ulteriormente illuminato per evitare pericolosi scossoni al trono e all’ampio business in cui è coinvolto. In barba a ogni conflitto d’interesse e in sintonia con tanti comportamenti europei. Da questa posizione conciliante può ora interloquire col futuro governo, trasferendo a terzi eventuali fulmini di malcontento soprattutto sociale, e rilanciando sotto altra veste quella sorta di consociativismo che l’ha legato a più attori. Al neocolonialismo di ritorno e a una ristretta casta di straricchi e privilegiati, un mix fra notabili tribali, businessmen e militari. Costoro, appoggiandosi alla famiglia sovrana e alle multinazionali avide di materie prime (sì, ancora quelle come due secoli fa), risultano i beneficiari delle ricchezze del Paese che invece ne trae una limitata redistribuzione. 

Se tutto ciò continuerà anche nel nuovo clima politico, o se quest’ultimo riuscirà a sparigliare i giochi lo scopriremo in futuro. In questi giorni il neocolonialista occidente, assillato dall’islamismo di governo, s’interroga su chi sia e cosa vorrà fare questo Pjd. Il partito è giovane ma non neonato, vedeva luce quando i consigliori di Hassan II suggerivano al re come la miglior forma di autocrazia fosse quella che si dà un’aria tollerante. Mohammed VI dal 1999 l’incarna con naturalezza, mentre nei suoi ventitre anni di politica il Pjd è stato nell’agone senza strafare, ricavandosi uno spazio basato su un po’ di tradizione e scarsa rivendicazione. I dati elettorali gli conferiscono 107 seggi su 395, in base ai quali il leader Benkirane potrebbe guidare una coalizione; lui nelle prime dichiarazioni è sembrato meno strutturato ideologicamente del collega Ghannouchi.  Per mostrare un volto dialogante ha aggirato simboli “imbarazzanti” come il velo, che tanto infastidiscono il tradizionalismo europeo e statunitense. Dice “C’è chi lo porta, chi vi rinuncia con scelte assolutamente individuali”. L’attenzione dei media occidentali s’è quindi rivolta a questioni di costume come l’accettazione dell’omosessualità. “Ognuno pratichi a casa sua” è stata la risposta, che fa intendere come chi governerà non ha intenzione di scrutare fra le lenzuola dei cittadini.

Accanto ai segnali di costume nella società permangono i dubbi che hanno tenuto lontano dai seggi la stragrande maggioranza della popolazione principalmente giovanile. La diffidenza verso un passo di “democrazia” che per il potere monarchico potrebbe rappresentare solo una mera operazione di maquillage, la classica maschera che nasconde l’immobilità d’un sistema tarato dai vizi di classismo e corruzione. Cosicché il  programma di Islam moderato dovrà comunque tener presente che l’irrisolta povertà e l’insoddisfazione dei bisogni primari possono continuare a essere la fucina dell’Islam del Jihad  che nelle baraccopoli di Casablanca ha pescato fino a poco tempo addietro i suoi kamikaze.

29 novembre 2011

Enrico Campofreda è laureato in Storia presso ‘La Sapienza’, e specializzato a ‘RomaTre’. Giornalista dal 1988, ha collaborato con Paese Sera, Il Messaggero, Corriere della Sera, Il Giornale, La Gazzetta dello Sport, Il Corriere dello Sport, Il Manifesto scrivendo di sport. Attualmente collabora con Terra e con testate web seguendo politica estera e sociale. Ha pubblicato due romanzi “L’urlo e il sorriso”, Di Salvo, Napoli, 2007;  “Hépou moi”, ABao AQu, Rovigo, 2010


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